Di seguito si riporta un estratto della tesi di Paola Sala
Laureata in Psicologia presso l'Università degli Studi di Padova nell'anno 2000-01 con una votazione di 110 su 110.
Nuove modalità di formazione: counseling, tutoring, mentoring, coaching, Differenze e somiglianze
Prima di descrivere approfonditamente counseling e coaching, cercherò di chiarire in che cosa si differenziano da altre relazioni di supporto one to one che si applicano in ambito lavorativo.
Tracciare una linea di confine netta tra questa modalità di intervento non è un’operazione facile, tanto che nemmeno gli specialisti concordano completamente. Inoltre, ogni autore dimostra, spesso esplicitamente, di propendere per l’una o l’altra tecnica e tende ad enfatizzarne i lati positivi. Ad un’analisi più approfondita, tuttavia, le differenze emergono e riguardano innanzi tutto lo scopo per cui l’intervento è realizzato, ma anche il tipo di rapporto che si instaura tra “allievo” e “maestro” e il tipo di attività messo in atto.
• Counseling
Il counseling è una relazione tra un consulente e un cliente incentrata sulla condizione di difficoltà psicologica vissuta da quest’ultimo a causa di ostacoli e problemi di varia natura. (Folgheraiter, 1996).
Il presupposto perché il counseling possa avere successo è che la persona che richiede l’aiuto abbia una struttura della personalità sufficientemente salda, anche se magari momentaneamente in disequilibrio. Il counseling ha lo scopo di “abilitare” il cliente a prendere delle decisioni di carattere personale che egli vive in modo problematico, ma non è indicato per risolvere disturbi strutturali della personalità, che necessitano di una ristrutturazione globale dell’Io (Burnett, 1971). In questo il counseling si differenzia in modo netto dalla terapia, anche se inizialmente è nato proprio come nuovo modo di relazionarsi con il paziente in una forma più coinvolgente ed empatica (mi riferisco in particolare a Carl Rogers e alla sua “terapia centrata sul cliente”, di cui parlerò più avanti). In ambito lavorativo i problemi che richiedono un intervento di counseling possono nascere, ad esempio, da una difficoltà di prestazione, da un trasferimento, da un difficile rapporto con i colleghi oppure riguardare la sfera più personale dell’individuo, come la perdita di una persona cara, un periodo di difficoltà economica, etc.
• Tutoring
In questa modalità di intervento il tutor, che generalmente è una persona di staff o comunque non un diretto superiore di colui che segue, si pone come punto di riferimento e come guida nel percorso di apprendimento di un neoassunto oppure di una persona su cui l’organizzazione ha deciso di “puntare”, in altre parole un potenziale in crescita (Reggiani, 2000). Scopo del tutoring è permettere alla persona di acquisire delle conoscenze tecnicospecialistiche e gestionali approfondite per ricoprire in modo più consapevole il proprio ruolo lavorativo.
La peculiarità del tutoring, come scrive Intonti (2000) “è di essere incentrato, non tanto sullo sviluppo delle capacità relazionali, di comunicazione ed esplicitamento delle capacità, bensì proprio sulle
competenze lavorative, sulle specifiche capacità richieste dal ruolo che si svolge all’interno dell’azienda”. L’apprendimento passa sia attraverso l’esempio e il fare alcune attività insieme, sia soprattutto tramite degli incontri di confronto che possono essere richiesti dal tutor oppure dall’allievo in caso di difficoltà.
Alcuni autori sottolineano l’importanza del tutor come figura chiave di riferimento per i neoassunti perché ha il pregio fondamentale di ridurre il turnover aziendale attraverso la risoluzione immediata di eventuali problemi di adattamento (Celestino, 1990)
Tra le tecniche di sostegno ad personam è forse quella meno recente; attualmente è poco trattata dalla letteratura, probabilmente perché sembra meno adatta a supportare la persona nel suo insieme e richiama invece un’idea di semplice trasmissione delle conoscenze di tipo scolastico.
• Mentoring
Il mentoring può essere definito “una relazione di coppia che assume la forma di colloqui periodici per lo più situati in un orizzonte temporale compreso tra uno e due anni, in cui uno dei due soggetti mette a disposizione la propria esperienza e conoscenza al fine di guidare e sostenere l’altro in un percorso di apprendimento e crescita in particolari momenti della sua esperienza professionale che corrispondono a significativi transizioni o richiedono lo sviluppo del suo patrimonio di conoscenze” (Piccardo, 1998, p.37).
A differenza del tutoring, il mentoring ha lo scopo, non solo di permettere all’allievo di ampliare le sue conoscenze, ma anche di integrarsi nella cultura aziendale e di fornirgli supporto psicologico. Generalmente è rivolto ai neoassunti per aiutarli nella fase di ingresso nell’organizzazione. Le funzioni principali del mentoring sono tre (Cortese, 1997):
aiutare l’allievo nel suo percorso di apprendimento: identificazione dei suoi punti di forza e di debolezza e delle discrepanze rispetto alle capacità richiesta dal ruolo, ricerca delle opportunità per migliorare;
trasmettere all’allievo la cultura organizzativa (Piccardo. Benozzo., 1996), intesa, secondo la formulazione di Schein (1990 p.35) come “insieme di assunti di base inventati, scoperti o sviluppati da un gruppo determinato quando impara ad affrontare i propri problemi di adattamento con il mondo esterno e di integrazione al suo interno, che si è rivelato così funzionale da essere considerato valido e, quindi, da essere indicato a quanti entrano nell’organizzazione come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi”;
facilitare il percorso di iniziazione dell’individuo e contribuire a renderlo integrato in modo ottimale, evitando l’insorgere di malintesi e incomprensioni con colleghi e collaboratori.
Come ricorda Reggiani (2000), la parola mentore è di origine antica e deriva dalla mitologia greca: Mentore è il fidato consigliere alle cui cure Ulisse affida il figlio Telemaco prima di partire per la guerra di Troia. Il mentore, quindi è qualcosa di più di un capo che addestra un subordinato, ma è più una guida che si prende in carico l’allievo nella sua globalità e offre un sostegno e una comprensione profondi. Per questo motivo i contatti tra mentor-allievo sono molto più frequenti e continui rispetto al tutoring. Come nel tutoring il ruolo di mentore può essere ricoperto da un superiore diretto oppure da un collega più anziano ed esperto, ma esterno: probabilmente questa seconda ipotesi è preferibile perché evita la difficoltosa situazione del capo che deve valutare di fronte ad altri le prestazione di colui che fino a quel momento si è impegnato ad aiutare in modo così profondo.
Per quanto riguarda lo svolgimento dell’attività di mentoring, Claudia Piccardo (2000) afferma che in un percorso “ideale”di mentoring ci sono 10 fasi, dalla fase iniziale di definizione degli obiettivi, delle risorse e dei vincoli di progetto, alla fase finale di bilancio dei risultati dell’attività svolta. In mezzo, la scelta dei candidati sia per il ruolo di mentore che per quello di mentee. La Piccardo solleva l’importante questione della scelta degli allievi e si chiede se sia preferibile favorire le autocandidature oppure lasciare che siano i capi a suggerire le persone cui rivolgere l’intervento. Nel primo caso si avrebbero persone più motivate, ma non si possono escludere sentimenti negativi di tipo persecutorio da parte dei capi del tipo: perché non gli basto io, cosa gli faccio mancare? Nel secondo caso si rischia di avere “allievi” poco motivati e soprattutto a disagio perché possono non capire il motivo per cui sono stati scelti: mi hanno scelto perché sono debole o perché sono un alto potenziale? Perché non ci pensa il mio capo a formarmi?
Un’altra questione cruciale è l’accoppiamento tra mentor e mentee che, secondo l’autrice, dovrebbe essere fatto sulla base sia delle preferenze informalmente espresse, sia sulla base della massima distanza organizzativa e gerarchica tra i due. Claudia Piccardo suggerisce inoltre di dedicare qualche ora alla preparazione, sia cognitiva che emozionale, dei mentori, per evitare che si trovino impreparati a risolvere le eventuali difficoltà nella relazione che stanno per iniziare.
Per quanto riguarda i vantaggi, quelli del mentoring sono diversi e riguardano sia l’allievo che il mentore che l’organizzazione (Quaglino e Cortese, 1997).
Per l’allievo i vantaggi sono sia di ordine professionale (apprendimento di competenze, facilitazione della carriera, integrazione culturale nell’organizzazione), sia di ordine personale (aumento della motivazione, rapporto di sostegno emotivo e incremento della comprensione del significato del proprio lavoro). Forse il vantaggio maggiore del mentoring è che favorisce la crescita professionale dell’ “allievo”, che è messo in grado di trarre dalle occasioni professionali offerte il massimo apprendimento e al tempo stesso di imparare sull’esempio di una persona di successo (Cecchinato e Di Pietro, 1998).
Per il mentore i vantaggi non sono così intuitivi, ma sono comunque rilevanti: un rinnovamento di interessi e motivazioni lavorative, dovuto anche all’ampliamento delle relazione e del prestigio goduto all’interno dell’azienda la soddisfazione di poter trasferire ad altri le proprie competenze, la possibilità di riflettere su temi considerati “acquisiti”.
Per le organizzazioni i vantaggi sono principalmente la riduzione dei costi della formazione tradizionale, il miglioramento delle performance dei collaboratori, l’aumento della soddisfazione e il miglioramento del clima lavorativo (Reggiani, 2000).
Ovviamente è di cruciale importanza selezionare con cura il mentore per evitare che il mentoring produca più danni che benefici: ad esempio un professionista esperto e preparato, ma “deluso” dall’organizzazione non è certamente la persona adatta a ricoprire questo ruolo perché finirebbe con il colludere con l’allievo contro l’organizzazione. D’altro canto una persona poco sicura di sé potrebbe essere diffidente verso l’allievo, pensando che questi un giorno potrebbe “soffiargli” il posto e quindi decidere di centellinare il suo aiuto. Per questo motivo Cortese e Quaglino sottolineano l’importanza di una selezione accurata del mentor, scelto possibilmente tra coloro che spontaneamente si sono offerti per quel ruolo.
Essi, pur essendo sostenitori del mentoring, mettono in guardia da un suo uso improprio o superficiale perché, trattandosi di una relazione molto stretta e coinvolgente, che ricorda per certi versi quella tra padre e figlio, il rischio che nascano delle dinamiche di tipo edipico non è affatto escluso (Quaglino e Cortese, 1997; Delmestri, 1997). Gli autori auspicano pertanto che i due 14 membri della coppia non siano lasciati a se stessi, ma seguiti possibilmente da un esperto, ad esempio un consulente.
Nonostante gli indubbi benefici del mentoring, soprattutto per i neoassunti, le organizzazioni sono ancora piuttosto restie ad utilizzarlo appieno. Una delle ragioni addotte è che porta via tempo prezioso per attività produttive e che può essere sostituito con un'azione di affiancamento-tutoring per brevi periodi. Ma, come abbiamo visto, al tutoring manca la funzione di “iniziatore culturale” e soprattutto il coinvolgimento più pieno che è caratteristico del mentoring.
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